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The art of today belongs to us / Take me (I’m Yours)

Domenica 14 gennaio è terminata la mostra Take me (I’m Yours), nata da un’idea dell’artista Christian Boltanksi e del curatore Hans Ulrich Obrist, negli ampi spazi dell‘Hangar Bicocca a Milano. Presentata per la prima volta nel 1995 alla Serpentine Gallery di Londra, diventata nel 2015 una mostra itinerante per il globo che ogni volta si distrugge, si ricostruisce, si reinventa e si reinterpreta, Take me (I’m Yours) rompe i canoni della fruizione tradizionale dell’opera d’arte. I visitatori sono invitati a interagire con le opere in modo attivo e non solo ricettivo, e finalmente a fare tutto ciò che di norma è vietato in un museo: toccare, prendere, disegnare, incollare, mangiare, dare un proprio contributo nel modo più spontaneo e libero possibile.

Gli artisti – alcuni tra i più grandi nomi dell’arte contemporanea – sono invitati a presentare idee e creazioni che il pubblico possa prelevare. Pensiamo ad esempio alle pin di Gilbert&George, che riportano gli slogan urlanti del duo britannico, in un incontro tra dissacrante ironia e contestazione, o ai vestiti di seconda mano ammassati in montagne al centro dello spazio – già progetto di Boltanski nel 1991 col nome di Quai de la Gare – in cui i visitatori sono invitati a prendere un capo e riporlo in una busta con scritto Dispersion. Le opere si possono anche modificare, ad esempio facendosi un selfie e pubblicandolo nel progetto di Franco Vaccari Esposizione in tempo reale N.4, o portando un oggetto personale di colore rosso da lasciare nell’installazione di Alison Knowles, Homage to Each Red Thing.

Si possono mangiare i cioccolatini di Carsten Höller incartati nella scritta Future, o lo scheletro di marzapane disteso su un polveroso letto di zucchero ideato da Daniel Spoerri, l’artista della Eat Art. Questa volta, anziché una tavola con gli avanzi del pasto appena consumato, per sempre intrappolati in un convivio mai terminato, in una profonda riflessione sui principi dell’alimentazione e della nutrizione, in relazione al suo valore collettivo e spirituale per l’uomo, Spoerri ragiona sul concetto della morte, contrapposto a un’azione assolutamente vitale e compartecipata come quella del mangiare.

I contributi possono essere fisici, lasciare quindi traccia di sé, possono essere istruzioni da svolgere, in quell’istante o nel futuro, in solitudine o con qualcuno, ma soprattutto sono, dalla prima all’ultima opera, esperienze: vissute, da vivere, da riproporre, da condividere, da custodire. Finalmente, Take me apre gli occhi sull’identità dell’arte, negando la sua rappresentazione elitaria ma presentandola come collettiva: tutti, infatti, possono partecipare a questa mostra, senza esclusioni o limitazioni di alcun tipo, neanche economiche. Se il carattere dell’esperienza sul campo è quasi ludico, rimane al visitatore un compito importantissimo: quello della riflessione. Tutto ciò che abbiamo potuto toccare, prendere o scambiare, non è altro che il simbolo di un pensiero alla base della poetica degli artisti; ma soprattutto è il riflesso della società in cui viviamo, di ciò che ci circonda, dei sistemi attraverso cui tessiamo i nostri rapporti e che costruiamo quotidianamente. In sostanza, della nostra vita.

La mostra di Obrist e Boltanski ha avuto il delicato compito di aprirsi a una società ricca di diversità e contraddizioni, tra esperti d’arte e addetti ai lavori, passanti curiosi e qualche scettico, regalando per tre mesi alla periferia milanese una fitta programmazione di talk, eventi e performance, e un pensiero fortissimo: Nau Em I Art Bilong Yumi / The Art of Today Belongs to Us – L’arte di oggi appartiene a noi, attraverso le parole dei temporary tattoos di Lawrence Weiner.

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